Da oltre 20 anni noi di Harpo verdepensile divulghiamo una cultura della progettazione di soluzioni nature-based pensate in maniera specifica per il clima mediterraneo.
Siamo un partner strategico per progettisti, applicatori e investitori con i nostri sistemi-prodotti, i nostri servizi e il nostro know-how che condividiamo attraverso seminari, consulenze e prodotti divulgativi.
Dedichiamo una parte significativa della nostra attività alla promozione del sistema a verde pensile tecnologico e dei suoi valori a tutta la nostra filiera: la condivisione di sapere è, per noi, centrale.
Per questo dall’autunno 2023 Harpo verdepensile edita un magazine digitale, uno strumento di divulgazione e approfondimento su tematiche di ampio respiro e centrali per il mondo delle NBS e delle infrastrutture verdi urbane trattate da professionisti del settore.
L’editoriale dei primi tre numeri è stato firmato dall’arch. Elena Granata – professoressa di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano – che abbiamo intervistato e alla quale abbiamo chiesto un bilancio di questa attività
Cosa l’ha principalmente motivata a prendersi l’impegno della curatela del nostro magazine sin dal suo esordio? Quali erano le sue aspettative e i suoi desideri?
“Ritengo che riuscire a trasformare la propria competenza, anche il proprio studio, la propria ricerca in qualcosa di comunicabile al grande pubblico sia uno dei primi doveri morali degli accademici oggi, perché le cose di cui ci occupiamo, come la qualità dell’ambiente, la mitigazione degli impatti ambientali, la vita delle persone nei contesti urbani ha a che fare con la vita di ciascuno. Non è qualcosa che riguarda solo gli addetti ai lavori. Ecco perché ho accolto con grande entusiasmo, ma anche con grande serietà, l’invito di Harpo, a curare e a mettere insieme i contributi di tanti colleghi preparati in ogni campo del sapere, cercando di trovare un filo comune, qualcosa che potesse essere raccontabile al grande pubblico. Abbiamo parlato di acqua, di verde, di clima mettendo insieme voci di scienziati, architetti, botanici, ingegneri. Abbiamo scelto un formato chiaro, sintetico, facile da comprendere e soprattutto ispirazionale, qualcosa che porti le persone a capire che il cambiamento è nelle mani di ciascuno di noi. Io per prima posso dire dopo un anno di collaborazione di avere imparato molto dalla lettura dei pezzi dei colleghi, aprendomi a prospettive diverse dalle mie. Un lavoro interdisciplinare che ci dice che se la crisi climatica è certamente un grande pericolo per i nostri destini umani, è anche una straordinaria occasione di ingegno e di immaginazione: riusciamo insieme ad immaginare di vivere con la natura senza pensare di essere superiori e senza farne oggetto della nostra avidità? La natura potrebbe essere il nostro campo di impegno comune per vivere insieme in modo più mite.”
Quanto è importante – soprattutto in questo momento storico – che la divulgazione di queste tematiche arrivi sia dal mondo accademico che dalle aziende?
“E’ importante che tematiche ambientali vengano anche gestite, trattate dalle aziende, in particolar modo da quelle aziende che si occupano di intervenire sulla materia degli edifici, sul miglioramento degli impatti, sullo spazio pubblico e sui giardini, sulla gestione delle acque; in questo senso Harpo è un’azienda che ha tutte le caratteristiche per essere al contempo un luogo di business, ma anche di promozione culturale e di sensibilizzazione ai temi ambientali. Ma non è una questione che può interessare solamente le aziende dedicate all’ambiente. Oggi tutto il mondo aziendale deve essere sollecitato a una svolta ambientalista. Si tratta di ripensare i modelli energetici, i modelli di consumo, l’economia in chiave circolare, il modo in cui si gestiscono i rifiuti, il proprio impatto sul territorio e la responsabilità sulle risorse naturali che sono scarse. Oggi c’è bisogno di un coinvolgimento di tutto il mondo del lavoro e delle persone che lavorano nelle grandi aziende, perché trovare soluzioni e intervenire concretamente sui problemi di questo tempo richiede un coinvolgimento diretto di tutti gli attori sociali.”
Tra gli attori sociali un ruolo indubbiamente importante è quello dei committenti siano essi privati che pubblici. Come si può far comprendere a questi interlocutori che è necessario affidarsi ad una ‘logica vegetale’ per adattare le città agli effetti del cambiamento climatico rispetto a paesi che utilizzano le NBS in maniera intensiva già da decenni?
“Ci vuole un cambio di paradigma, un cambio di visione del mondo, in particolare un cambiamento nel modo in cui pensiamo alle città e alle politiche sulla città. Quando facciamo riferimento ad una “logica vegetale” pensiamo alla necessità di mettersi alla scuola della natura, che significa imparare dalla natura le soluzioni necessarie. Siamo di fronte a rischi idraulici, alla presenza di isole di calore, a condizioni di intensa siccità, subiamo bombe d’acqua: assumere una logica vegetale significa provare ad adattare le città al cambiamento, lavorare sulla pelle della città per renderla più capace di assorbire l’acqua, più spugnosa e assorbente, più capace di sostenere le ondate di calore. Non possiamo cambiare il clima e i suoi grandi mutamenti ma possiamo agire sulle città, sugli spazi anche più banali (muri ciechi, campi abbandonati, tetti, giardini, facciate) perché collaborino a migliorare il “microclima” dove abitiamo.
È chiaro che noi veniamo da una cultura che ha pensato la natura, soprattutto in termini culturali, come un abbellimento, un orpello, un ornamento, un giardino. Oggi riportare la natura in città non risponde solo ad esigenze estetiche, ma soprattutto ad esigenze legate alla sicurezza delle persone e delle città. E imparare dalla natura, assumere una logica che è quella del mondo vegetale, che è una logica mite, collaborativa, che integra le soluzioni entro una visione comune, è qualcosa che gli amministratori e anche i tecnici devono imparare perché molto lontana dal modo in cui si è agito fino adesso.”
Quali sono secondo lei gli strumenti tecnici esistenti ( es. PGT del comune di Milano ) e quali andrebbero implementati ( ad es. il Piano Clima ) per favorire e implementare l’utilizzo delle NBS nelle nostre città?
“Io credo che lo strumento più utile nel prossimo futuro dovrà essere il piano clima (o un piano equivalente), cioè un piano che metta al centro, prima ancora che l’uso del suolo e le trasformazioni edilizie e Urbanistiche, la questione dell’adattamento e della mitigazione climatica; ho definito il piano clima come “il piano dei piani”, cioè quel piano che dovrebbe essere a cappello di tutte le scelte che vengono fatte poi dal piano di governo del territorio, dal piano del traffico, dai piani settoriali, dai piani sociali, dai piani di edilizia. Un piano che fa precedere a ogni altra decisione pubblica, la pubblica sicurezza rispetto ai rischi climatici. E non deve essere un piano di carta, ma un piano di scelte, di azioni. È importante che sia un piano politico, programmatico che contenga tutte le azioni che un’amministrazione, insieme alla comunità civile e insieme alle imprese è disponibile ad adottare sul proprio territorio. È un piano molto pragmatico, un piano d’azione, è un piano strategico. È un piano che ha bisogno di tutti per poter essere implementato. E quindi ha bisogno delle imprese, ha bisogno dei commercianti, ha bisogno delle istituzioni scolastiche, ha bisogno dei prestiti, ha bisogno delle nuove generazioni perché ciascuno dentro il piano clima può fare la differenza.”
Un’azione sistemica dunque che richiede una promozione di una dimensione etica e non solo estetica della natura … Da dove iniziare?
“Quando penso alla necessità di comunicare una dimensione non solo
estetica della natura, penso soprattutto alla modo in cui facciamo fare esperienza della natura nelle scuole, alle nuove generazioni; c’è una grandissima differenza tra insegnare la biologia, le scienze della terra attraverso l’uso di un libro o far fare esperienza diretta della natura ai bambini sulla spiaggia, dove possono imparare il moto delle maree, in un bosco dove possono capire il ruolo degli alberi, le radici, la comunità del sottobosco, o apprezzare la quantità di animali che fanno la biodiversità di un bosco. Ecco, la dimensione etica della natura passa attraverso un’esperienza diretta, un coinvolgimento che non è soltanto intellettuale, ma è anche emotivo, che porti soprattutto le nuove generazioni che hanno un estinto molto forte di amicizia con il mondo animale e naturale, ad amare la natura. Poi gliela facciamo studiare. Ma prima di ogni cosa c’è l’apprendimento per via empatica. Si difende qualcosa che si è imparato ad amare. Su questo tema ho scritto un libro dal titolo Ecolove. Perché i nuovi ambientalisti non sanno ancora di esserlo (ed.Ambiente) con Fiore de Lettera.”
Come si potrebbero coinvolgere i cittadini nel promuovere i vantaggi del verde pensile in ambito urbano ( sociale, economico ) e quali sono secondo lei degli esempi notevoli – da cui recuperare alcune buone pratiche – in cui questa specifica NBS ha rivestito un ruolo da protagonista?
“Le Nature Based Solution sono soluzioni che possono essere adottate alla grande scala con grandi vasche, giardini, inondabili, piazze inondabili come nel nord Europa, in particolare ad Amsterdam o sono soluzioni semplicissime che possono essere adottate anche dai singoli cittadini. Pensiamo a un proprietario di una piccola villetta che decida di pavimentare il proprio giardino e il proprio box, trasformandolo in un luogo che sia capace di drenare e assorbire l’acqua. Pensiamo alla possibilità dei cittadini piantumare specie adatte al clima nel proprio giardino. Pensiamo alla possibilità di adottare delle specie arboree che purificano l’acqua sul proprio terrazzo. Pensiamo alla possibilità di favorire la presenza di insetti, di animali, di uccelli. È fondamentale coinvolgere le persone, ribaltando la logica Nimby in Yimbi (Yes in my backyard); quello che ciascuno può fare nel suo giardino è importante: piantare alberi, togliere asfalto, produrre energia pulita, ridurre i consumi. L’adattamento alla crisi climatica richiede un grande sforzo corale che coinvolga tutti i cittadini. Alberi, verde pensile, aiuole, parchi, stagni o laghi, ma anche strade sterrate, sabbia e altre superfici permeabili in grado di assorbire velocemente l’acqua e rallentare il deflusso superficiale, assolvono certamente a una funzione ecosistemica e aiutano a contrastare gli effetti della crisi climatica sulle città ma al contempo possono alimentare una nuova idea di pianificazione urbana.”
Infine, in 2 dei suoi libri ( “Placemaker” e il “Senso delle donne per la città”, entrambi editi da Einaudi ) sostiene che le nostre città sono patriarcali nel senso che sono a misura d’uomo (UOMO) e che esprimono tale patriarcato con pietra, mattoni, vetro e cemento. Come sarebbe una città a misura di donna ? Una città progettata da una donna per una donna ?
“È indubbio che le nostre città siano patriarcali. Le donne sono state lontane dalla pianificazione e dal progetto delle città. Tenute lontane dall’architettura e dai cantieri si sono dedicate alla fotografia, trovando mille modi diversi di raccontare le persone e gli spazi della città. Escluse dalla pianificazione urbanistica si sono dedicate alla scala minuta, granulare, del design dell’abitare e della vita quotidiana, progettando spazi di prossimità e di benessere. Sono giardiniere e paesaggiste più che progettiste, pedagogiste più che ingegnere. Non potendo fare architettura fanno ancora oggi decorazione e design, perché la sfera intima del privato è il loro campo di gioco. Quando possono generano pensiero e visioni lungimiranti; osservano da vicino le città – nelle loro pratiche quotidiane – con il distacco che solo chi è escluso dai giochi può avere; hanno una competenza che nasce dall’esperienza quotidiana, dai luoghi dove vivono, dal modo in cui si muovono nelle città, dal modo in cui frequentano con i figli lo spazio pubblico, dall’attitudine a camminare per strada, andare in bicicletta. La loro conoscenza parte dal corpo e dall’esperienza del quotidiano. Possono dare molto se coinvolte nel pensare e progettare gli spazi comuni delle città.
Perché in fondo, uomini e donne, sono oggi chiamati non a progettare il completamente nuovo ma a ripensare l’esistente: è un lavoro di cura e di ricucitura, di messa in sicurezza, di connessione, di senso, di reinvenzione di manufatti abbandonati, di rinaturalizzazione di spazi abbandonati. Ecco perché ciascuno di noi è chiamato a essere un Placemaker, un plasmatore di spazi di vita. È uno spazio d’azione e di creatività che dovrebbe ingaggiare soprattutto le nuove generazioni che hanno a cuore le sorti del pianeta e forse non sono più disposte a vivere per lavorare; sono città attente agli spazi e ai tempi di vita.”
Nel ringraziare la Prof.ssa Granata per il suo impegno e il suo lavoro profuso nella cura del nostro magazine, ricordiamo che i primi 3 numeri sono disponibili iscrivendosi alla nostra newsletter: >>>https://www.harpoverdepensile.it/newsletter/